Migranti sì, migranti no.

Più volte, e con insistente garbo, mi hanno chiesto di dir la mia sul fenomeno delle migrazioni che in questi giorni attrae così tanto l’attenzione mischiandosi a una rovente infinita campagna “politica” (leggasi: elettorale). Non so che valore abbia tal mio parere, posto che mi occorrerebbe la competenza del sociologo, dell’economista e dello storico dell’età contemporanea. Comunque, se è vero che la riflessione su tema si esprime con molte voci: ecco la mia, prendete ciò che possa risultare utile, per il resto perdonate e tollerate.

Che i cristiani debbano esercitare l’ospitalità è un punto fermo e irrinunciabile. Anche nel mondo ‘pagano’ questo esercizio era sacro e di Zeus si parlava come di Xenios, cioè protettore degli ospiti. La missione cristiana ebbe straordinario successo a motivo di tale buona opera di carità, così che l’imperatore pagano Giuliano, volendo arginarla, tentò di predisporre un similare sistema coerente alla sua fede. Ma fu un fallimento; i cristiani avevano una marcia in più: nei poveri, nei sofferenti ravvisavano l’immagine stessa di Cristo. La philanthropia del saggio pagano era diversa dalla charitas del credente in Gesù.

Sono persuaso del fatto che la raccomandazione di Giacomo 2,17, secondo la quale una fede senza le opere è inutile, si riferisca a una fede che non si traduca nel dono dell’ospitalità e della solidarietà verso categorie fragili (orfani e vedove specialmente). S’intende che i cristiani antichi svilupparono strutture loro proprie atte a questo esercizio e mai chiesero allo Stato (allora Res publica) di provvedere alla bisogna. Nella società dell’epoca non v’era un qualcosa di simile all’odierno stato sociale e le comunità agivano per conto proprio predisponendo sussidi per le categorie più deboli. Lo ripeto: i cristiani avevano un motivo ancòra più forte: Gesù stesso aveva loro detto che nel povero e nel sofferente egli stesso si ‘nascondeva’.

Per chi ha a cuore l’attualità rimane dunque il problema di stabilire soltanto il come tale ospitalità abbia oggi ad essere esercitata. E non è poco.

Andiamo al sodo: mi hanno chiesto cosa la Bibbia insegnasse in merito.

Nell’età dell’Israele antico i fenomeni migratori per guerra o per fame erano esperienza ricorrente. A sèguito di guerra gli ebrei furono deportati in terre straniere, e questa fu ‘cattività’, cioè prigionia, anche se documenti archeologici attestato che le condizioni economiche di molti di loro lì migliorarono così da non indurli più a ritornare. A sèguito di carestia tribù di ebrei (al pari di altre tribù del Vicino Oriente Antico) erano solite ciedere rifugio nel ricco Egitto. E questo è il caso dei fratelli di Giuseppe che, dopo aver venduto costui a mercanti d’Egitto, in sèguito lì si recano a implorare aiuto per la carestia.

Quanto al Nuovo Testamento non è il caso di ricordare Giuseppe e Maria gravida: costoro non erano ‘migranti’, come un’esegesi approssimativa e frettolosa, volle far dire al romano pontefice tempo fà: erano invece provinciali che andavano a farsi registrare nell’anagrafe della provincia romana di Giudea, secondo gli ordini imperiali. Dunque, ove mai volessimo chiamare in causa questo versetto, dovremmo rubricarlo come attestazione di collaborazione da parte della “sacra famiglia” al fine di realizzare un archivio, un’anagrafe, una ‘schedatura’ chiara delle presenze e delle identità di chi calca un suolo.

Certamente i credenti in Gesù erano pronti a ospitare e ad accogliere, e ciò avvertivano come un gradito dovere; tuttavia la tendenza, quando il fenomeno s’avviava ad acquisire dimensioni macroscopiche, era quella di aiutare i bisognosi non alienandoli dalle loro regioni. Così avvenne in occasione della carestia all’epoca di Claudio (cfr. Atti 11,28) che indusse una grande raccolta di fondi e mezzi, insomma una ‘colletta’, a beneficio dei fratelli poveri gerosolimitani. Questa ‘colletta’ ebbe proporzioni notevoli se si considera l’esiguità delle comunità dell’epoca ed attesta un notevole livello d’organizzazione, come rete di solidarietà, delle stesse (Romani 15,26). Noi conosciamo ciò che a tal proposito fece Paolo, ma Flavio Giuseppe, nelle sue Antichità, ci ragguaglia su interventi similari della regina Elena di Adiabene, simpatizzante del giudaismo, a beneficio dei giudei.

Questa linea era in sintonia con la politica di Roma la quale creava strutture enormi e magnifiche nei territori delle sue province: i legionari erano anche abilissimi costruttori, e così sorsero lunghissime strade, porti, granai, vi fu la redenzione di enormi territori convertiti in campi, etc. Questa politica determinò un benessere per quelle regioni ‘periferiche’ che divenne addirittura maggiore di quello goduto da Roma nei secoli secondo e terzo. Si pensi all’Egitto granaio del Mediterraneo, all’Asia come regione più urbanizzata e ricca dell’impero, alle sponde del Nord Africa rese il più ameno e lussureggiante giardino dell’epoca. Tutto ciò poté realizzarsi in virtù di un’idea di imperium che non era un bieco colonialismo commerciale, anche se questa dimensione non era estranea, ma coincideva con il miglior modo di vivere allora concepibile. Paolo di Tarso sapeva tutto ciò e invitava i credenti a pregare per questa struttura (Romani 13,1-4), così anche l’autore della Prima Petri (2,13-14) e, più di tutto, quel Luca che compose gli Atti degli Apostoli dove leggiamo un eloquente apprezzamento di Roma e del suo diritto (25,16). Fa eccezione l’Apocalisse di Giovanni: dietro alcune sue pagine si nasconde un ritratto beluino del potere di quell’impero. L’autore rifletteva la particolare situazione dell’Asia proconsolare all’epoca delle vessazioni di Domiziano (13,1-10) che determinavano problemi ai credenti quanto al culto imperiale (13,11-18) e si disgustava per quel lusso misto a lussuria che s’accompagnava ai traffici di merce pregiata che in Roma aveva il suo centro di gravità (cap. 18). La differenza di valutazione su Roma tra Luca e Giovanni il veggente dovrebbe servire al lettore avveduto a non trarre sic et simplciter dalla Bibbia direttive in merito alla politica d’oggi, ma ad esser sempre rispettoso dei contesti.

La Bibbia non è una mappa stradale che v’accompagna persino nei vicoletti, al contrario è una bussola che vi fornisce con chiarezza poche ma chiare coordinate fondamentali a cui ispirarsi oggi e sempre. Cosa ricavarne in merito ai grandi problemi migratori che sconvolgono il presente? Cosa suggerire alle autorità preposte? Accoglienza, certamente e fermamente, ma basata non solo sulla persuasione di fede (molti potrebbero anche non essere credenti), non solo sulla Bibbia, ma anche su criteri studiati e ben ponderati che consentano di ‘governare’ il fenomeno: né di combatterlo, né di subirlo.

Respingendo il migrante si rischia di allontanare Cristo che bussa a noi sotto le apparenze del povero. Accoglierlo indiscriminatamente significa commettere l’errore denunciato da uno dei più antichi testi cristiani: la Didaché dove si invita all’accoglienza ma si fornisce un criterio per esercitarla: non tollerarla più di tre giorni dopo di che si allontanava l’ospite oppure lo si doveva vedere al lavoro.

Quanto al tema del razzismo sembra inutile dirlo ma per i seguaci di Gesù la parola stessa era sconosciuta. D’altro canto nelle fonti letterarie greche e romane non c’è dato di cogliere denigrazioni basate su colore di pelle o afferenze etniche. V’era certo il gusto dell’esotico (e questo fu eredità dell’erudizione ellenistica) ma mai si giunse a orribili atteggiamenti che hanno caratterizzato l’uomo moderno. La donna poteva essere nivea, cioè di pelle candida, il che in latino equivaleva a ‘bella’; oppure di pelle scura, come la bella sposa del Cantico, e ciò conferiva un’attrazione erotica. Tutto qui. Del giudeo i greci alessandrini parlavano malissimo, ma per motivi d’economia e non etnici, i romani dai loro costumi insoliti traevano argomento di riso ma non di discriminazione raziale. Anzi, se mi si consente una libertà, nell’Epistola ai romani troviamo attestata una correzione che Paolo rivolge a quei giudei, convertiti alla fede in Gesù, i quali menavano vanto della loro afferenza etnica e si consideravano superiori ai loro confratelli ‘gentili’, cioè non ebrei. Il cristianesimo, se lo si prende sul serio, fu un superamento delle divisioni etniche e sociali talché da sùbito non vi fu né giudeo né greco. In fin dei conti la vera cittadinanza era quella dei cieli, come Paolo ebbe a ribadire a quei filippesi (3,20) i quali, da abitanti di una colonia romana, si vantavano, appunto, della loro cittadinanza romana (Atti 16,12.21).

Concluderei con una personalissima riflessione: il fenomeno migratorio ha paradossalmente portato beneficio in alcune chiese evangeliche italiane secolarizzate; si pensi ai ferventi metodisti d’Africa e d’Asia che ricordano ai piccoli nuclei italiani come il Signore sia entusiasmo e gioia nello Spirito. Esso potrebbe portare un beneficio ulteriore se le chiese evangeliche tutte insieme, poiché la carità non conosce separazioni, dessero l’esempio di una rete d’accoglienza e di integrazione che contenga e palesi un’anima specificamente evangelica. La carità diverrebbe testimonianza e questa, inoltre, missione ed evangelizzazione.

Tutto ciò secondo le ragioni del cuore, ma anche secondo i criteri del buon senso e della retta politica amministrativa. Quante volte una falsa accoglienza ha ingenerato profitti enormi e truffaldini a beneficio di pseudocoperative! Si tracci un binario di legalità e su questo si faccia scorrere la fiamma dell’amore di Cristo. Carità, legalità, fede, razionalità, accoglienza, repressione del crimine: sono vocaboli apparentemente diversi che per noi indicano un’unica e medesima sostanziale esperienza: l’incontro con Cristo che avviene tramite una fede che non può non tradursi in buone opere.

Giancarlo Rinaldi

 

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