Francesco Turrettini, tra luci e ombre

Dobbiamo essere riconoscenti a Pietro Bolognesi e alla BE Edizioni per aver dato voce italiana a Francesco Turrettini (1623-1687) rispettivamente curando e pubblicando la sua ingente opera latina dal titolo Institutio Theologiae elencticae la quale vide la luce nella Ginevra che va dagli anni 1679-1785. L’iniziativa colma una lacuna non solo bibliografica ma anche culturale (e per molti anche spirituale) relativa alla riflessione italiana sui riformatori nostrani che tanta fortuna ebbero all’estero.

L’opera costituisce un pilastro della teologia riformata o, per meglio dire, della “scolastica calvinista” laddove con questa espressione s’intende tutto un complesso di riflessioni, di testi e di azioni che nel Seicento intesero dare rigore sistematico al pensiero di Giovanni Calvino con viva sensibilità ai due grandi problemi che incisero su quest’età: 1. La necessità di compattare dottrinalmente il fronte riformato (leggasi ‘calvinista’) contro il luteranesimo e divisioni interne, specialmente l’amiraldismo; 2. L’urgenza di far fronte all’azione controriformistica (principalmente gesuitica) tesa a riportare all’obbedienza romana il più possibile le popolazioni a queste sottrattesi nel secolo precedente.

La storia del nostro teologo inizia da lontano e affonda le sue radici in quella Lucca che fu esemplare crogiuolo di pensiero riformato italiano già nel Cinquecento. Il nonno, anche lui Francesco sr. (1547-1628), dopo aver aderito alla Riforma, dové abbandonare precipitosamente la sua città per salvar la pelle a sèguito di una condanna per eresia comminatagli nel 1578. Dopo varie peripezie si stabilì nella protestante Ginevra dove fece fiorire i suoi commerci di sete pregiate e le sue attività di banchiere. Con suo figlio Benedetto (1588-1631) iniziò la dinastia dei Turrettini teologi: lo vediamo partecipare al sinodo di Dordrecht del 1618/1619 a sostegno delle dottrine gomariste (cioè di derivazione calvinista) e a condanna di quelle arminiane.

Il nostro Francesco jr. (1623-1687), oltre a dispiegare attività diplomatica e politica, si consacrò con successo agli studi di teologia pervenendo alla cattedra dell’Accademia ginevrina. Questa attività teologica si svolse sempre procedendo su due binari: a. l’intento di dare un assetto rigorosamente sistematico alla teologia riformata; b. l’esigenza di sviluppare continue polemiche: contro i cattolici (da lui rigorosamente chiamati ‘papisti’ e confutati già nel 1674 con una specifica opera polemica), contro i socianiani, gli amiraldiani, gli arminiani. Per farla in breve: contro tutti coloro che non condividessero il suo pensiero. Collaborò con altri teologi alla stesura di una precisa confessione di fede la quale recepiva fedelmente i Canoni di Dordrecht e che fu chiamata Formula di consenso delle chiese svizzere poiché a queste fu imposta nel 1675. In questo testo venivano recepite le più radicali conclusioni a cui era pervenuta quell’assise olandese che aveva decretato nei suoi esiti condanne, esili e decapitazioni. Nella Formula, ad esempio, si proclamava il valore limitato dell’espiazione compiuta da Cristo in croce: “Noi non possiamo concordare con l’opinione di quanti affermano che Cristo sia morto per tutti gli uomini, a condizione che credano”; ed a proposito della salvezza si dichiarava: “Dio, volendo palesare tutta la sua gloria, decretò dapprima di creare l’uomo integro e perfetto, poi di permettergli di cadere e infine di avere misericordia e pietà di alcuni fra quelli che avevano errato, tanto da arrivare ad eleggerli, e nel contempo di lasciare gli altri nella massa corrotta, e alla fine di condannarli alla dannazione eterna” (trad. Castellina). Per volere del Turrettini su tutti i pastori e i professori venne fatto gravare, con giuramento, l’obbligo di sottoscrivere questo testo e il divieto persino di discuterne gli assunti.

Jean Alphonse Turrettini (1671-1737) fu l’unico figlio del precedente Francesco a sopravvivere. Fu dotato di temperamento ben diverso da quello paterno: laddove quest’ultimo aveva impedito la riflessione sui temi dottrinali da lui rigorosamente definiti comminando sanzioni, il figlio promosse una circolazione d’idee caratterizzata non solo da una necessaria libertà di pensiero (come nello spirito originale della Riforma) ma anche da una sapiente capacità di discernere tra temi sui quali era necessaria la concordia e altri, secondari, per i quali la diversità andava considerata non solo un diritto dell’uomo ma anche un’opportunità di crescita. Era questo l’assunto della sua importante opera edita nel 1719: Nubes testium pro moderato et pacifico de rebus theologicis iudicio, et instituenda inter Protestantes concordia. Sta di fatto che tra le prime azioni politiche che egli intraprese dopo esser succeduto al padre vi fu, nel 1706, l’abolizione dell’obbligo voluto da papà Francesco nel 1769 non solo di vincolare tutti i pastori alla sua Formula di concordia ma anche d’impedire che si discutesse soltanto sui temi in questa trattati. Insomma, per farla in breve, quella ‘concordia’ che il padre intendeva realizzare con imposizioni, imbavagliamenti e divieti, il figlio desiderò istituire con un appello alla tolleranza intesa come pacifica accettazione di punti di vista non necessariamente coincidenti. Dei Turrettini di Ginevra, dunque, papà Francesco fu caro alla tradizione calvinista della scolastica, il figlio Jean Alphonse alla storia della libertà di pensiero e della filosofia, insieme a grandi menti dell’età che fu sua con cui fu in costante cordiale dialogo: J. Newton, F. Spanheim, N. Malebranche, J. Chouet, J. Bossuet, etc.

Veniamo adesso alla nostra edizione italiana del Turrettini. L’impresa non è completa e noi speriamo che possa felicemente giungere al suo traguardo. Con questo spirito mi permetto alcune osservazioni frutto di mie non brevi (ahimé) frequentazioni di testi e biblioteche. Sarebbe il caso di indicare con precisione chi ha tradotto dal latino (forse il Bolognesi a cui si attribuisce la curatela ma non la versione? O, forse, il Bolognesi ha affidato ad altri la traduzione ed ha curato chi questa aveva già curato?) e, inoltre, su quale edizione originale è stato condotto il lavoro. Maggiore attenzione andrebbe posta alle citazioni dal greco che sono molto numerose e per la maggior parte errate e per più motivi talché il lettore acquisisce la certezza che chi s’affannò all’opera rendere nella nostra italica favella quel testo di studi classici era del tutto digiuno, cosa non gradevole quando si pensa che il testo originale era latino / greco e che l’autore, il Turrettini, aveva una sua decorosissima preparazione umanistica. Alcuni esempi: errori determinati per mancanza di accenti (alle pp. 14, 17, 39, 53, 72), per mancanza di spiriti (pp. 46, 49, 55, 62), per singolare al posto del plurale (35, 36), per accento errato (p. 48). Alcuni pochissimi esempi a caso: p. 13 (προφορικῶ in luogo di προφορικός; ἐνδιαθέτω in luogo di  ένδιάθετος); p. 22 (θεόπνεῦστος in luogo di θεόπνευστος; ἀποῤῥοη in luogo di ἀπορροή); p. 24 (παῤῥησία in luogo di παρρησία); p. 31 (σκληροτοράχηλοι in luogo di  σκληροτράχηλοι); p. 62 (Ολψμπιὰς in luogo di  Ὀλυμπίας). E terminiamo qui, appena alla p. 72, questo lacrimevole elenco permettendoci d’incoraggiare chi vi ha lavorato a prendere in mano una grammatica greca da ginnasio.

Il lettore trarrà motivo di diletto quando alla p. 118 leggerà di una “regola lesbica” applicata a giudicare faccende diversamente solubili. Tranquilli, nessuna allusione ai gusti sessuali di qualche donna, nessuna apologia ante litteram delle teorie LGBT. Il traduttore in italiano non conosceva che la “regola di Lesbo (isola)” qui citata nell’originale latino; è quella esposta dal buon Aristotele nella sua Etica Nicomachea (V,10,7) riferendosi a una squadra che, come strumento di architettura, aveva la capacità di adattarsi alla pietra a cui si applicava. Mi fermo qui nei miei rilievi per carità di patria e pro bono pacis.

Concludo formulando i migliori auguri affinché la collana venga interamente completate, ma questo augurio si unisce all’altro e, cioè, che chi all’opera si dedicherà faccia pace con la filologia classica. Il buon Turrettini lo merita, specialmente se si presenta la sua produzione come “cibo solido” per i cristiani. In un’epoca di diffuse frodi alimentari non si dia occasione che la Institutio sia tra queste! Il suo pensiero, ben lungi dall’essere per noi oggi esaustivo e normativo, costituisce comunque una pagina di storia della chiesa che non va dimenticata, anche affinché non si ricada nell’intolleranza religiosa.

Last but not least: il titolo dell’opera è malamente tradotto in italiano Istituzione della teologia persuasiva. Il latino Institutio Theologiae Elencticae va invece diversamente (e correttamente) tradotto Esposizione della teologia confutatoria, semplicemente perché elencticos è un calco tardo latino dal greco ἐλεγκτικός / ἔλεγχος il cui significato primario è ‘confutatorio’, ‘confutazione’. Inoltre: a tutti coloro che un po’ di filosofia l’hanno studiata è noto che una dimostrazione ‘elenctica’ è quella finalizzata alla confutazione della tesi opposta la quale, anche se la si ammettesse, implicherebbe la dimostrazione della propria. Inoltre, il titolo non era nuovo nella letteratura cristiana. Si pensi, per citare solo un esempio, alla Confutazione (ἔλεγχος) delle eresie dello Pseudo Ippolito!

Certamente sì: Turrettini aveva in animo di confutare in modo definitivo i suoi avversari papisti, sostituendo al loro papa in carne e ossa la Scrittura che egli riteneva non solo divinamente ispirata, ma inerrante e perfetta anche per quanto riguarda le vocalizzazioni che i masoreti in età medioevale avevano apposto a un testo in origine solo consonantico.

Giancarlo Rinaldi

 

 

 

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